Sabato 12 è stata effettuata una visita al carcere di Rieti, organizzata dall’associazione Radicali Roma che sta compiendo una serie di visite negli istituti regionali dando la opportunità anche a “normali cittadini” di accedere a questo mondo facendosene un’idea diretta; Sabina Radicale ha rilanciato l’iniziativa localmente. Solo due cittadine reatine, Silena D’Angeli e Rossella Gigli hanno aderito: entrambe in “politica” ma non in amministrazione ed entrambe impegnate nel volontariato; né amministratori, né “cittadini di Facebook” hanno ritenuto di approfittare dell’iniziativa: un’occasione persa per entrambe le categorie.
La visita dell’istituto, oltre a consentire la conoscenza delle umanità presenti, di detenuti e detenenti, avrebbe permesso specie agli amministratori di confrontarsi con una realtà che, proprio come la città esterna, ha grandi potenzialità inespresse ed inascoltate, anche dalle amministrazioni locali.
In particolare tutte le amministrazioni comunali succedutesi nei decenni sono state lontane da questa parte viva della città: ricordiamo che a Rieti è istituita da quasi dieci anni la figura, a titolo gratuito, di un Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti, che non è però mai stato nominato; attualmente l’istituto riceve la visita di collaboratori del Garante Regionale ogni due settimane. Il corpo sociale cittadino (le associazioni, gli ordini) risente certo di questa lontananza.
Nella prima visita che effettuiamo dopo pandemia e dopo le rivolte, abbiamo trovato un istituto certo più vivibile rispetto ad altri, non solo perché ufficialmente risulta non sovraffollato (ma ricordiamo che le celle ideate per due persone furono successivamente adattate e dichiarate per quattro) ma perché gran parte della giornata è vissuta in sezione, a celle aperte. Vogliamo sperare che sia questa maggior vivibilità ad aver tenuta lontano da Rieti l’ondata di suicidi arrivati, con progressione quasi giornaliera, nel momento in cui scriviamo, a 83 da inizio anno (79 tra detenuti, 4 tra agenti).
Il problema più sentito dai detenuti è ancora quello delle attività lavorative: nessuno lavora fuori, nessun lavoro è portato dentro. Spiragli si intravedono grazie all’iniziativa “Seconda Chance” della giornalista Flavia Filippi che con il suo sforzo di connettere istituti, imprenditori, amministratori, è giunta un mese fa anche a Rieti, bene accolta dalla amministrazione che però chissà perché non ne ha dato notizia alla città.
Se l’assenza di attività lavorative è particolarmente gravosa per i detenuti extracomunitari, privi di ogni possibile aiuto esterno alla sussistenza, incide per tutti pesantemente sul processo di reinserimento e su recidiva a fine pena. Questa considerazione dovrebbe muovere l’interesse di ogni governante ed amministratore, anche per chi non prendesse per buona la Costituzione su cui ha giurato (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”).