Scorrendo la stampa locale si riscontra spesso della confusione, trasmessa poi all’opinione pubblica, sul tema “droga e guida”.
Nelle recenti modifiche al codice della strada, oltre all’inasprimento delle pene, è stato modificato l’articolo che tratta di stupefacenti: mentre prima il conducente veniva perseguito (come giusto) se in uno stato di alterazione psico-fisica, oggi basta un test il quale però è positivo anche per una precedente assunzione (anche di giorni o settimane, dipende dalla persona e dalla sostanza).
Infatti l’articolo (il 187) prima si chiamava “Guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti” ed adesso si chiama “Guida dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti”.
Stando così le cose (finché la Corte Costituzionale non verrà investita della questione) quando Polizia e Carabinieri segnalano di aver rilevato una positività, i media non dovrebbero far uso di espressioni come “guida drogato” o “incidente dovuto a stupefacenti”.
Anche perché l’immagine di un “guidatore drogato” genera più allarme sociale che quella di uno “un po’ brillo”; e però (ultimi dati ISTAT appena precedenti alla modifica dell’articolo 187) le contravvenzioni per la “Guida in stato di ebbrezza alcolica” erano dieci volte quelli per “Guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti”. Questo mentre l’Istituto Superiore di Sanità stima che fra gli incidenti stradali mortali il 30-35% sia correlato ad alcol.
Alla confusione pare abbia poi recentemente contribuito la stessa Arma dei Carabinieri, laddove si è letto di “esito positivo ai cannabinoidi, per un quantitativo sei volte superiore al consentito”: non esiste infatti nella legislazione alcun “limite consentito” ai cannabinoidi per quanto riguarda la guida. Esistono solo dei “limiti” che aiutano le Forze dell’Ordine a ipotizzare un possesso per uso personale anziché spaccio; sicuramente si sarà trattato di un refuso in sede di stesura del comunicato, magari riferendosi appunto al tasso alcolico.
Anche a Rieti si è celebrata, come in tutta Italia, la Giornata della Memoria; è una giornata che si celebra annualmente, un po’ per dovere istituzionale di legge, un po’ per convinzione.
La Giornata fu istituita “al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati” quindi allargando la Memoria della Shoah alla deportazione in Germania per scopo lavorativo di militari e civili non ebrei.
Da anni a Rieti la cerimonia istituzionale si concentra su questi ultimi, anche perché i deportati “per lavoro” furono 600-800mila e i deceduti 37-50mila. Più facile quindi offrire la testimonianza di eredi dei deportati sopravvissuti che degli eredi degli 8mila ebrei, quasi tutti uccisi.
Sarebbe importante però coltivare anche la memoria della sorte degli ebrei passati per questa provincia e del ruolo, non passivo, che la nostra comunità ebbe nel loro sterminio.
Ci riferiamo in particolare ai 14 ebrei, tra cui 5 bambini, deportati il 6 gennaio 1944 verso Fossoli da cui presero la via di Auschwitz dove donne, bambini ed anziani furono avviati direttamente alle camere a gas; solo uno di loro, il 30enne Leone, fu selezionato come abile al lavoro; marchiato 180042, riuscì a sopravvivere e tornò (anche a Rieti) in cerca di tracce di genitori, moglie e quattro figli da cui era stato separato sulla banchina del treno, appena scesi dal carro bestiame in cui avevano viaggiato per 5 giorni.
Nel dopoguerra sopravvisse vendendo oggetti di valore che era riuscito a nascondere ad Amatrice con l’aiuto di Emilio Santarelli (di cui sarebbe anche giusto onorare la memoria), mentre quanto portato a Rieti fu trafugato.
dalla pratica IRO (International Refugee Organization) Leone Gattegno; da archivio Arolsen, voce Elia Gattegno
“Ruolo non passivo” di questa provincia, sì. I pochi di noi che abbiano sentito parlare di questa storia, di queste vittime innocenti, sarebbero portati a pensare che quanto qui accadde fu “doloroso ma ahimè inevitabile”; che Rieti non si trovò “suo malgrado in un flusso che non poteva arrestare”. Non è così, non fu così. Al contrario, Rieti si pose sulla cresta dell’onda, prima provincia a consegnare i “propri” ebrei.
Le infami leggi razziali del 1938 avevano fatto degli ebrei degli italiani di seconda categoria, ma come italiani erano protetti dal genocidio tedesco. La svolta ci fu con la Repubblica Sociale, che a Novembre del 1943 dichiarò tutti gli ebrei come “stranieri” e, durante quella guerra, “appartenenti a nazione nemica”. Il 30 Novembre un ordine di Polizia ne chiese ai Capi della Provincia l’arresto e il concentramento. A Rieti fu immediato l’arresto delle famiglie di “ebrei stranieri” che si trovavano in domicilio coatto a Rivodutri, Leonessa, Amatrice, Borgo Velino. Non furono concentrati in un campo (quello di Granica, allora non completato, non era utilizzabile) ma in carcere, analogamente ad altre provincie.
L’aspetto che caratterizza però Rieti fu l’immediata deportazione verso Fossoli, anticamera della deportazione verso Auschwitz: le altre provincie li avevano sì concentrati (in campi, edifici, carceri) ma senza “cederli” se non da fine gennaio, quando probabilmente si giunse tra tedeschi e RSI ad un accordo (di cui non si è trovata traccia documentale ma che è nei fatti).
A.Osti Guerrazzi – Gli specialisti dell’odio; delazioni, arresti, deportazioni di ebrei italiani
Qualche settimana fa abbiamo segnalato agli istituti scolastici reatini l’esistenza di questa memoria “visibile”; non sappiamo se si sia riusciti a cogliere questa opportunità.
Abbiamo inoltre rivolto al Comune un’istanza perché la targa, affissa allora prima di ricevere i dovuti permessi, sia autorizzata, sperando che ciò ne faccia una riconosciuta parte della Città.
Crediamo sia importante, nel coltivare la memoria, riuscire ad innervarla con le storie delle persone che vissero quei fatti e che i segni nei luoghi compensino la sempre maggiore lontananza nel tempo.
Leggiamo dell’ennesimo evento critico avvenuto nel carcere di Rieti ai danni di un agente penitenziario da parte di un detenuto con problemi psichiatrici.
Siamo solidali con gli agenti e l’agente coinvolto e ci auguriamo che, a livello nazionale, si ponga mano a ciò che è dietro a queste “aggressioni”: il sovraffollamento, la carenza di organico, il trattamento non adeguato di soggetti psichiatrici.
A nostro avviso, questi episodi debbono vedere uniti e concordi tutti coloro che hanno attenzione per il mondo penitenziario, evitando strumentalizzazioni e fughe in avanti.
Ci riferiamo alla contestuale richiesta, da parte dei sindacati USPP e SAPPE, di disponibilità del taser. Richiesta che non è nuova, si ripete da anni, anche da altri sindacati (ad esempio il SiNAPPe).
Il taser è un’arma, così definito dal Vademecum di Uso della Polizia di Stato, il quale raccomanda che “l’utilizzatore deve essere prudente nell’uso del Taser, che deve essere trattato con la stessa attenzione con cui si tratta un arma da fuoco” e che segnala come “la distanza ottimaledi tiro è compresa da 2 a 5 metri, il tiro utile giunge sino a 7,5 metri circa”.
Il taser è insomma un’arma che, a distanza, consente di bloccare un individuo pericoloso senza ucciderlo (anche se il rischio di morte esiste comunque).
Ad esempio un suo opportuno uso avrebbe potuto essere per quanto accaduto a Villa Verucchio, dove per bloccare un individuo incontrollabile, il Carabiniere Masini ha invece usato la pistola uccidendolo.
Ma come si può sostenere e ripetere che il taser possa essere utile in situazioni come quella riportata, in cui addirittura l’agente è stato aggredito alle spalle? O in cui riceve un pugno “improvviso” durante una perquisizione o all’interno di un reparto di Diagnosi e Cura? Già nel 2007 il DAP (nota 00922858 del 21.3.2007 “Uso legittimo delle armi da parte del personale appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria”) si era espresso nettamente, muovendo dai Principi Costituzionali, sull’uso delle armi da parte della Polizia Penitenziaria; ad esempio “Per unanime e consolidato orientamento giurisprudenziale, la mera fuga è una forma di resistenza passiva, e pertanto l’uso delle armi per fermarla è sempre illegittimo” e “Nel caso di resistenza attiva con violenza sulle persone, [..] la violenza portata senza armi non giustifica mai una risposta armata”.
Questo governo non è certo insensibile ai richiami dal corpo di Polizia Penitenziaria; si pensi al sottosegretario Del Mastro Delle Vedove, la cui scorta da sempre è composta da distaccati dal Corpo. Se da anni questa richiesta sindacale del taser – nel frattempo concesso anche ai Vigili Urbani – non viene accolta è perché quelle motivazioni del 2007 sono tutt’ora valide ed ancor più per un’arma con le caratteristiche tecniche del taser.
In quest’ottica l’insistere sul taser pare essere solo un gioco a scavalco tra le varie sigle sindacali, che è quanto di meno c’è bisogno nel mondo carcerario: occorre invece unità tra tutte le voci, perché quella di condizioni umane di detenzione è una battaglia per tutti gli attori e che si può vincere solo tutti insieme.
L’ennesimo episodio di violenza nel carcere di Rieti, riportato dal sindacato SAPPE, fa notizia fino ad un certo punto: non stupisce che episodi del genere accadano anche nell’istituto di Rieti, un tempo “isola tranquilla”, avendo anch’esso sperimentato rivolte con morti, sciopero della fame finito con morte, proteste pacifiche, suicidio.
Quello che però è nuovo è “nella” notizia: da tempo segnaliamo come un problema il fatto che quanto accade nel nostro istituto sia monopolio di comunicati sindacali, che per ragione sociale sono “di parte”. In questa comprensibile ottica, i sindacalisti pongono l’accento su quanto purtroppo accade e debbono subire gli agenti, cui è dovuta tutta la solidarietà e che a Rieti si dice si siano comportati sempre con correttezza e umanità.
Così però si capisce sempre poco, e nessuno dei lettori è portato a chiedersi, quale sia stato il fatto/la richiesta scatenante dell’episodio; quando il comunicato è generoso, vengono riferiti con espressioni come “motivi futili” o “senza giustificazione”.
Questa volta però, si verifica un fatto inedito: lo stesso sindacato riporta due diverse versioni dell’antefatto dell’aggressione. Il segretario del SAPPE Lazio scrive alla stampa locale che “L’uomo, ristretto di nazionalità italiana, nella tarda serata ha preteso, con varie scusanti, di essere visitato dal medico di guardia, il quale, coadiuvato dal Sovrintendente ed altro personale di Polizia Penitenziaria, si è recato presso la cella. Entrati all’interno, il medico constatava una simulazione di malessere da parte del detenuto, il quale, a sua volta pretendeva che gli fossero consegnati dei farmaci”
mentre Osapoggi.it, sito web nazionale dello stesso sindacato riporta che:
“L’episodio ha avuto inizio quando il recluso, senza alcun motivo apparente, ha preteso di essere trasferito in isolamento. Al rifiuto del Sovrintendente, l’uomo ha inscenato un tentativo di suicidio, seguito da una simulazione di crisi epilettica. Il Medico di turno del carcere, intervenuto tempestivamente, ha smascherato la simulazione”
Non abbiamo elementi sufficienti per capire, anche se una richiesta di andare in isolamento ed una richiesta di farmaci fanno pensare ad una difficoltà psichica che non stupisce. Quello che vogliamo sottolineare è però l’evidenza conclamata, da questa singolare doppia descrizione, della incompletezza o approssimazione della comunicazione sindacale e l’invito ai media di tenerne conto.
L’auspicio è che la futura nomina di un Garante Comunale possa anche aiutare nella comunicazione e nella conoscenza di quanto avviene all’interno dell’Istituto. Nel frattempo, in attesa dell’esame ed approvazione del nuovo regolamento, del bando e della nomina, l’associazione ha avuto dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria l’autorizzazione alla visita inizio settembre, nella quale accompagneremo l’assessore Giovanna Palomba ed i consiglieri Rosella Volpicelli, Giovanni Grillo e Carlo Ubertini.
L’informazione e la conoscenza sono ancor più necessarie a livello nazionale per affrontare la situazione carceraria che è ormai esplosiva. Questa conoscenza si sta diffondendo ormai a livello politico, ma è ancora insufficiente nell’opinione pubblica, di cui la politica è più follower che leader. Per questo come associazione abbiamo aderito alla richiesta, partita dal gruppo Europa Radicale, che la RAI parli di carcere in prima serata, con tutte le professionalità che vivono gli istituti di pena, avvocati e personalità che se ne occupano da anni. L’appello è consultabile e sottoscrivibile su https://europaradicale.eu/appello-alla-rai-per-speciale-carceri-in-prima-serata/
Denso di contenuti il convegno “Non c’è più tempo”, tenuto martedì 9 dalla Camera Penale di Rieti.
Il tema era quello della situazione drammatica del sistema carcerario, che vede quest’anno superare ogni statistica di affollamento e di suicidi, sia dei detenuti che del personale (spia quest’ultima, più di ogni altra, del malessere dell’istituzione).
Il “Non c’è più tempo” si rispecchia peraltro nella crescente sofferenza che, acuita dal caldo estivo, è già sfociata in pacifiche proteste ma anche rivolte a Milano, Firenze, Viterbo, Trieste. Oggi Rieti è più tranquilla, al di là di ciò che viene comunicato dai sindacati della Penitenziaria, ma non dimentichiamo che ad inizio Covid fu scenario di una sanguinosa rivolta, conclusasi con 3-4 detenuti morti; episodio su cui la Procura aveva aperto un’inchiesta.
Ben scelti i relatori del convegno, che rappresentavano tutti i punti di osservazione della tematica: una direttrice di istituto, un’avvocata penalista, un Garante detenuti, un Magistrato.
Tra i relatori, l’avvocato Maria Brucale – componente del Direttivo di Nessuno Tocchi Caino – ed il garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasia.
Entrambi si sono soffermati sull’analisi del recente decreto legge 92/2024 “Carcere Sicuro”. I relatori tutti hanno comunque evidenziato i limiti di questo decreto, che altrove abbiamo letto sintetizzare come “nulla di straordinario, poco di necessario, scarsamente urgente”. Il procuratore dottor Capizzi lo ha analizzato insieme alla riforma Cartabia soffermandosi soprattutto sulle misure alternative e sulle pene sostitutive, sottolineando l’importanza di quest’ultime anche per deflazionare i tribunali di sorveglianza (il nostro è a Viterbo).
Anastasia si è anche soffermato sul ruolo del Garante, che ovviamente non è quello di “garantire” ma che è quello di specifico “difensore civico”, importante per dare voce esterna, e specialmente verso le amministrazioni, delle problematiche generali e delle singole istanze dei detenuti. In questo quadro ha anche auspicato la finalizzazione del processo di nomina di un Garante Comunale a Rieti, per il quale ha confermato l’avvenuta convergenza con l’assessore Palomba.
Al “nostro carcere” ha fatto spesso accenno Marco Arcangeli, come moderatore del convegno, che significativamente ha visto la partecipazione della direttrice dell’istituto di Rieti, Chiara Pellegrini.
Come anche Maria Brucale per quanto riguarda il piano generale, la direttrice ha puntato l’attenzione sulle carenze di organico che aggravano i problemi di sovraffollamento, che tra l’altro a Rieti è ben sopra la media nazionale (504 presenti alla data, per una capienza regolamentare di 289).
Mentre i problemi del carcere come istituzione andrebbero affrontati (ma incisivamente) a livello nazionale, qualcosa parallelamente si può e deve fare in questa città per il carcere come istituto.
Nota dolente presentata dalla direttrice è infatti l’assenza di connessione tra città e istituto, situazione che Sabina Radicale evidenzia da decenni. La direttrice raccontava di aver esemplificato ciò, in un incontro avuto con il Sindaco, nell’assenza anche di indicazioni stradali per raggiungere l’istituto stesso.
Questa lontananza della città dal nostro carcere dalla era purtroppo evidente in platea. Non ci riferiamo tanto all’amministrazione e alla politica, che comunque a breve si occuperà del tema dovendo andare a finalizzare il nuovo regolamento per un Garante Comunale e poi la scelta dello stesso, quanto al tessuto sociale, specie del mondo del lavoro.
Lo diciamo portando ad esempio il fatto che da febbraio un detenuto lavora al McDonald’s di Rieti, grazie ai consistenti sgravi contributivi e fiscali della legge Smuraglia, all’opera della associazione Seconda Chance della giornalista Flavia Filippi e alla lungimiranza ed apertura del titolare Paolo Orabona. La legge Smuraglia esiste da oltre 20 anni ma la sua conoscenza è scarsa, nonostante l’ottimo lavoro di Seconda Chance, che già nell’autunno del 2022 incontrò l’amministrazione e per suo tramite alcuni imprenditori.
Ci sono altre imprese che, magari indirizzate e supportate dalle proprie associazioni, vogliano cogliere l’occasione di seguirne l’esempio?
<<Caro Riccardo, anche nel carcere di Rieti, che sulla carta potrebbe funzionare bene, noi detenuti siamo di fatto costretti a vivere in condizioni vergognose; per prima cosa infatti anche qui c’è sovraffollamento, tanto che siamo quattrocentocinquanta detenuti a fronte di duecentonovanta posti effettivi; un sovraffollamento questo che ci costringe a vivere nelle celle in quattro detenuti: una convivenza forzata che diventa più difficile se consideri che qui la maggior parte dello spazio è occupato dai letti e di fatto noi non abbiamo spazio per poterci muovere, figurati se possiamo avere tre metri quadri a testa.
Inoltre non solo siamo costretti a dormire su materassi che sembrano delle sottilette ma sotto le finestre delle nostre celle c’è talmente tanta sporcizia che sembra una enorme discarica a cielo aperto: un ammasso di sporcizia puzzolente che attrae i gabbiani e i piccioni ma anche che attrae topi e cimici che invadono le nostre celle.
Pensa che qui siamo ridotti talmente male che diventa un problema anche mangiare e questo perché il vitto che ci danno è poco ed è cattivissimo.
Ma anche se può sembrare strano, nel carcere di Rieti c’è chi sta peggio di noi e mi riferisco ai ragazzi detenuti stranieri, che vivono in condizioni a dir poco precarie ovvero in assoluta povertà, senza vestiti puliti e senza che ci sia qualcuno che li possa aiutare.
In questo mondo dimenticato che è il carcere di Rieti la cosa che ci pesa di più qui dentro è l’abbandono che dobbiamo subire ogni giorno: qui infatti non ci sono volontari, non c’è la Caritas e non abbiamo neanche la possibilità di ricevere un aiuto psicologico o qualcuno che semplicemente ci ascolti.
Un abbandono questo che riguarda anche chi tra noi è malato e non viene curato in modo giusto ovvero persone detenute che non vengono monitorate, controllate e che spesso non possono neanche prendere le medicine che gli servono perché quelle medicine non ci sono in carcere; infatti anche nel carcere di Rieti se c’è una medicina che non manca mai sono gli psicofarmaci ovvero le gocce come le chiamiamo noi in carcere, psicofarmaci che vengono dati a richiesta e che ti fanno dormire per tutto il giorno. Ma sbaglio o per dare ai detenuti questi psicofarmaci servirebbe una prescrizione medica? Questa prescrizione medica esiste o non esiste ogni volta che un detenuto prende uno psicofarmaco?
Insomma gli unici che sono presenti davanti a noi, gli unici che cercano di aiutarci, sono gli agenti della polizia penitenziaria; agenti che tra l’altro qui a Rieti sono pochi e sono costretti a fare dei turni massacranti.
Un’ultima cosa: anche se in questo carcere ci sono diversi locali dove poter lavorare, di fatto qui la maggior parte dei detenuti non fa nulla per tutto il giorno e anche la famosa falegnameria che tanto pubblicizzano sui giornali locali è chiusa da tempo.
Credimi io di carceri ne ho girate, ma un carcere, una galera ridotta male come quella di Rieti non l’avevo mai vista; ciao e alla prossima.>>
Pur mancando Sabina Radicale da oltre un anno nel visitare l’Istituto (ma a breve concorderemo con la Direzione una visita anche per i numerosi cittadini che hanno aderito alla iniziativa www.devivedere.it) possiamo dire che il quadro sia corrispondente a quanto conoscevamo ed avevamo riportato (fatta eccezione per problemi specifici di igiene o che, come il vitto, possono cambiare nel tempo). Stupisce, conoscendo lo stato di fatiscenza di altri istituti, l’affermazione conclusiva del detenuto ma come lui stesso dice “la cosa che ci pesa di più è l’abbandono”, intendendo la mancanza o insufficienza di lavoro, attività, assistenza.
Nel fine settimana dell’8 e 9 Giugno, giorno delle elezioni europee, andranno al voto anche molti comuni. Tra questi, ben 22 in Provincia di Rieti sotto i mille abitanti, quindi esposti al malcostume della presentazione di liste “fantasma” di comodo o propaganda che nulla hanno a che fare con quel comune; a volte, per mancanza di alternativa all’unica lista reale, hanno anche fatto eletti, mai presentatisi, comprimendo ulteriormente i diritti politici dei cittadini.
Sabina Radicale da tempo chiede una soluzione al problema e nel 2019 presentò, tramite il deputato di +Europa Alessandro Fusacchia, un semplice disegno di legge che prevedeva l’obbligo di 2 sottoscrizioni. Un ordine del giorno che impegnava il governo a risolvere il problema, fu inoltre presentato (ancora da Fusacchia) e approvato nel 2021.
Lo scorso maggio abbiamo chiesto di ripresentare quella proposta nella nuova legislatura a tre deputati: due eletti in questo territorio (Trancassini per la destra, Madia per il PD) e Magi come segretario di +Europa; purtroppo l’invito non è stato raccolto.
Tuttavia, proprio in quei giorni, la senatrice Pirovano della Lega presentava una sua proposta (S.379) che ha fatto il suo corso in Senato (approvata all’unanimità) e passata alla Camera non ha ricevuto emendamenti in Commissione Affari Costituzionali; ora è in attesa del parere della Commissione Bilancio, che non avrà sicuramente nulla da eccepire.
C’è quindi la concreta speranza che essa diventi legge e probabilmente già per questo turno amministrativo.
La proposta prevede:
non meno di 15 e da non più di 30 firme nei comuni tra 751 e 1.000 abitanti (solo quattro al momento in provincia, ma nessuno in questa tornata elettorale)
non meno di 10 e da non più di 20 firme nei comuni con popolazione compresa tra 501 e 750 abitanti (per questa tornata: Accumoli, Configni, Frasso, Longone, Mompeo, Monte San Giovanni, Poggio San Lorenzo, Posta, Roccantica)
non meno di 5 e da non più di 10 firme nei comuni con popolazione fino a 500 abitanti (per questa tornata: Castel Di Tora, Collegiove, Colli Sul Velino, Concerviano, Labro, Micigliano, Montasola, Morro Reatino, Orvinio, Paganico, Pozzaglia Sabina, Turania, Vacone).
Finalmente, dopo tre settimane dalla morte per sciopero della fame di Stefano Bonomi, il 65enne detenuto a Rieti, il giornalista Luigi Mastrodonato – che già aveva cercato di far luce sui decessi a Rieti nella rivolta del 2020 – è riuscito a portare la vicenda ad un livello nazionale, con un dettagliato articolo sul Domani.
Ne emerge un quadro di diverse fragilità che hanno fatto sì che Stefano, nonostante l’attenzione che gli è stata dedicata all’interno dell’Istituto di Rieti, rimanesse schiacciato da una giustizia, carceraria e non, che ha tempi e procedure non misurate sulla persona.
Al di là però del caso umano e giudiziario di Stefano Bonomi, rimane l’aspetto di una schermatura mediatica che circonda i casi di sciopero della fame di detenuti e, in questo caso reatino, perfino dopo il suo esito fatale.
Infatti, a fronte del tragico evento della notte tra il 5 ed il 6 gennaio, già stupiva che l’evento fosse stato reso noto solo il 10 gennaio e solo a Viterbo (non a Rieti dove lo sciopero era avvenuto). Ma poi ancor più che esso ha stentato nel lasciar tracce sulla stampa nazionale: accenni ne abbiamo trovati solo su L’Unità e Corriere.it il 16 Gennaio, su La Stampa il 19 e poi su Avvenire il 21. Anche una dichiarazione del 13 gennaio della consigliera regionale Mattia non è riuscita ad andare oltre la cronaca di Viterbo.
Usiamo la parola “tracce” perché, prima di Luigi Mastrodonato, senza nessun approfondimento o domanda: al massimo “Un 65enne è morto dopo un lungo sciopero della fame nel carcere di Rieti. Era in attesa di giudizio ed è spirato nel reparto di medicina protetta dell’ospedale «Belcolle» di Viterbo dove era stato ricoverato coattivamente”. In un’occasione anche semplicemente enumerato come caso di suicidio. E nessun politico di livello nazionale (con la solita eccezione di Rita Bernardini) o commentatore che abbia ripreso il fatto.
Questo contrasta visibilmente non solo con i casi di suicidio (che vengono comunicati tempestivamente e spesso ricevono attenzione in cronaca nazionale e con approfondimenti) ma anche con la rilevanza nazionale assunta dai casi di infausto sciopero della fame accaduti nel 2023: basta cercare in rete “Augusta sciopero della fame” e “Torino carcere sciopero della fame”. A Torino la notizia si ebbe a livello nazionale nell’immediatezza, ad Augusta (con due decessi) pochi giorni dopo; e a seguito, dichiarazioni del Garante Nazionale, visita del Ministro Nordio.
Per le morti di Augusta, il Garante Nazionale richiamò “la necessità di quella trasparenza comunicativa che, oltre a essere doverosa per la collettività, può anche aiutare a trovare soluzioni in situazioni difficili perché non si giunga a tali inaccettabili esiti”.
Anche associare i casi di sciopero della fame, e particolarmente questo, al degrado strutturale degli istituti (che non c’è a Rieti) o al sovraffollamento (quello c’è ed è notevole, ma in regime di celle aperte) non ci sembra calzante: per quanto abbiamo letto, tutti questi scioperi della fame erano legati a “diritti” invocati dai detenuti; diritti che competevano non alla dura, inumana vita in carcere, ma alla Giustizia “esterna”: la detenuta di Torino chiedeva di vedere il figlio di 3 anni; ad Augusta una richiesta era di essere estradato per scontare la condanna in patria. Di Bonomi La Repubblica il 30, in una breve, ci dice che “protestava perché non aveva avuto accesso ai benefici di legge”.
Il Garante Nazionale, nell’occasione di Augusta, evidenziò anche il differente eco mediatico tra lo sciopero di Alfredo Cospito e quelle vicende, che avevano riguardo detenuti “ignoti”. Quando Enzo Tortora tornò a Portobello, dopo il famoso “dove eravamo rimasti?” disse “io sono qui, e lo sono anche per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi”; ma sopravvisse appena un anno, a ciò che aveva subito.
E così gli scioperi della fame, lotta non violenta che per legge sarà “rivolta” se la fanno in tre, in Italia si svolgono in silenzio, lontano dai riflettori; e per Stefano Bonomi anche dopo.
Dopo la tragedia di Matteo, ancora qualcuno che muore di carcere: il 65enne Stefano Bonomi, detenuto a Rieti dove aveva condotto un lungo sciopero della fame, e che per la sua condizione era stato ricoverato il 3 Gennaio all’ospedale di Viterbo, il 6 mattina non ce l’ha fatta.
Non sappiamo se il ricovero sia stato coatto, come riportano le cronache viterbesi, o se si fosse convinto a farsi aiutare. Non sappiamo neppure i motivi per cui avesse intrapreso questa forma di lotta; le stesse cronache ci dicono che fosse in attesa di giudizio.
Se il suicidio di Matteo, seppur annunciato, è stato considerato “inatteso” anche dal Garante Regionale marchigiano, si potrà dire altrettanto per Stefano?
Di Matteo si sa tutto, di Stefano si saprà qualcosa? Cosa l’ha spinto, prima ancora di essere condannato, ad urlare così la sua richiesta? Era una richiesta legittima? Pare che sostenesse la protesta da molto tempo, anche interrompendola più volte; questo mostrerebbe sia la determinazione, sia la volontà di non portarla all’estrema conseguenza.
Non è la prima volta che questo accade in Italia. Ci furono episodi lo scorso maggio, in Sicilia. Allora, dopo la diffusione della notizia, il Garante nazionale delle persone detenute e private della libertà, Mauro Palma, richiamò “l’attenzione pubblica sulla necessità della completa informazione che deve fluire dagli Istituti penitenziari all’Amministrazione regionale e centrale affinché le situazioni problematiche possano essere affrontate con l’assoluta attenzione che richiedono”.
Se di Stefano Bonomi i Garanti Nazionali o Regionale dei Detenuti non conoscevano il caso (e crediamo di no, se dopo cinque giorni non ne ha data notizia) non credo sapremo mai di più, a meno che la famiglia non vorrà renderlo pubblico. Visto il tempo trascorso, immaginiamo che non ci aiuterà a capire neppure qualche sindacato della Penitenziaria, solerte nel riportare informazioni su violenze da parte di detenuti; eppure con il nuovo “Pacchetto Sicurezza” la “resistenza anche passiva agli ordini impartiti”, come quello di alimentarsi, è da considerare “reato di rivolta”. Sbagliamo a pensare che forse una utilità almeno in questa circostanza avrebbe potuto avere un Garante Comunale dei Detenuti (come spesso ripetiamo: figura a titolo gratuito istituita 10 anni fa e mai attuata)?
Il 6 Gennaio ricorreranno 80 anni dalla deportazione da Rieti, dal carcere di Santa Scolastica dove erano stati ristretti, di 14 “ebrei stranieri”.
I 14 ebrei, precedentemente erano internati in vari paesi della provincia: la famiglia Gattegno ad Amatrice dove nacque il piccolo Roberto, la famiglia Da Fano a Borgo Velino – e fu il soggiorno più sofferto -; da Leonessa la moglie cattolica di Ugo Löbenstein chiese invano di liberare – secondo legge – il marito deportato, a Rivodutri i coniugi Krohn vissero per oltre due anni.
Per iniziativa delle autorità italiane, furono deportati al campo di Fossoli e di lì a pochi mesi ad Auschwitz dove in 13 (le donne, i bambini, gli anziani) furono direttamente avviati alle camere a gas.
Questa città ha ufficialmente ricordato e onorato queste vittime con un convegno e mostra documentaria nel gennaio 2013 e a seguire in un libro, “La normalità colpevole”, edito nel 2014 dall’Archivio di Stato di Rieti con il patrocinio della Prefettura di Rieti e della Fondazione Museo della Shoah.
Tuttavia da allora essa non ha avuto occasione di ricordare quei fatti e quei nomi.
Per questo come associazione Sabina Radicale abbiamo deciso di tenere Sabato 6 Gennaio alle ore 11 una breve commemorazione davanti all’ingresso del carcere, al n.55 di via Terenzio Varrone, alla quale abbiamo invitato le autorità civili e religiose ed invitiamo la cittadinanza tutta.
Elia Gattegno, 52 anni, nato a Salonicco Elisa Giuili, 48 anni, nata a Tripoli, sua moglie Leone Gattegno, 30 anni, nato a Tripoli, suo figlio Fortuna Attal, 26 anni, nata a Tripoli, sua nuora Elia Gattegno, 6 anni, nato a Tripoli, suo nipote Armando Gattegno, 4 anni, nato a Tripoli, suo nipote Elisa Gattegno, 3 anni, nata a Tripoli, sua nipote Roberto Gattegno, 7 mesi, nato ad Amatrice, suo nipote
Isabella da Fano, 54 anni, nata a Reggio Emilia Renée Cohen, 29 anni, nata a Parigi, sua figlia Daniele Cohen, 3 anni, nato a Roma, suo nipote
Martin Krohn, 60 anni, nato a Schönfeld Gertrude Alexander, 54 anni, nata a Stargard, sua moglie