Una lettera dal carcere di Rieti.

Qualche giorno fa è stata letta su Radio Radicale una lettera da “Claudio, persona detenuta nel carcere di Rieti”.
Sabina Radicale ne offre di seguito la trascrizione. La lettura può essere ascoltata, dalla voce di Riccardo Arena, il conduttore della rubrica settimanale Radio Carcere, su:
https://www.radioradicale.it/scheda/721692/radio-carcere-il-carcere-di-velletri-tra-malati-di-mente-e-detenuti-condannati-allozio?f=0&p=0&s=1960&t=2273

<<Caro Riccardo, anche nel carcere di Rieti, che sulla carta potrebbe funzionare bene, noi detenuti siamo di fatto costretti a vivere in condizioni vergognose; per prima cosa infatti anche qui c’è sovraffollamento, tanto che siamo quattrocentocinquanta detenuti a fronte di duecentonovanta posti effettivi; un sovraffollamento questo che ci costringe a vivere nelle celle in quattro detenuti: una convivenza forzata che diventa più difficile se consideri che qui la maggior parte dello spazio è occupato dai letti e di fatto noi non abbiamo spazio per poterci muovere, figurati se possiamo avere tre metri quadri a testa.

Inoltre non solo siamo costretti a dormire su materassi che sembrano delle sottilette ma sotto le finestre delle nostre celle c’è talmente tanta sporcizia che sembra una enorme discarica a cielo aperto: un ammasso di sporcizia puzzolente che attrae i gabbiani e i piccioni ma anche che attrae topi e cimici che invadono le nostre celle.

Pensa che qui siamo ridotti talmente male che diventa un problema anche mangiare e questo perché il vitto che ci danno è poco ed è cattivissimo.

Ma anche se può sembrare strano, nel carcere di Rieti c’è chi sta peggio di noi e mi riferisco ai ragazzi detenuti stranieri, che vivono in condizioni a dir poco precarie ovvero in assoluta povertà, senza vestiti puliti e senza che ci sia qualcuno che li possa aiutare.

In questo mondo dimenticato che è il carcere di Rieti la cosa che ci pesa di più qui dentro è l’abbandono che dobbiamo subire ogni giorno: qui infatti non ci sono volontari, non c’è la Caritas e non abbiamo neanche la possibilità di ricevere un aiuto psicologico o qualcuno che semplicemente ci ascolti.

Un abbandono questo che riguarda anche chi tra noi è malato e non viene curato in modo giusto ovvero persone detenute che non vengono monitorate, controllate e che spesso non possono neanche prendere le medicine che gli servono perché quelle medicine non ci sono in carcere; infatti anche nel carcere di Rieti se c’è una medicina che non manca mai sono gli psicofarmaci ovvero le gocce come le chiamiamo noi in carcere, psicofarmaci che vengono dati a richiesta e che ti fanno dormire per tutto il giorno. Ma sbaglio o per dare ai detenuti questi psicofarmaci servirebbe una prescrizione medica? Questa prescrizione medica esiste o non esiste ogni volta che un detenuto prende uno psicofarmaco?

Insomma gli unici che sono presenti davanti a noi, gli unici che cercano di aiutarci, sono gli agenti della polizia penitenziaria; agenti che tra l’altro qui a Rieti sono pochi e sono costretti a fare dei turni massacranti.

Un’ultima cosa: anche se in questo carcere ci sono diversi locali dove poter lavorare, di fatto qui la maggior parte dei detenuti non fa nulla per tutto il giorno e anche la famosa falegnameria che tanto pubblicizzano sui giornali locali è chiusa da tempo.

Credimi io di carceri ne ho girate, ma un carcere, una galera ridotta male come quella di Rieti non l’avevo mai vista; ciao e alla prossima.>>

Pur mancando Sabina Radicale da oltre un anno nel visitare l’Istituto (ma a breve concorderemo con la Direzione una visita anche per i numerosi cittadini che hanno aderito alla iniziativa www.devivedere.it) possiamo dire che il quadro sia corrispondente a quanto conoscevamo ed avevamo riportato (fatta eccezione per problemi specifici di igiene o che, come il vitto, possono cambiare nel tempo). Stupisce, conoscendo lo stato di fatiscenza di altri istituti, l’affermazione conclusiva del detenuto ma come lui stesso dice “la cosa che ci pesa di più è l’abbandono”, intendendo la mancanza o insufficienza di lavoro, attività, assistenza.

Morire di sciopero della fame a Rieti, fa notizia in Italia?

Finalmente, dopo tre settimane dalla morte per sciopero della fame di Stefano Bonomi, il 65enne detenuto a Rieti, il giornalista Luigi Mastrodonato – che già aveva cercato di far luce sui decessi a Rieti nella rivolta del 2020 – è riuscito a portare la vicenda ad un livello nazionale, con un dettagliato articolo sul Domani.

Ne emerge un quadro di diverse fragilità che hanno fatto sì che Stefano, nonostante l’attenzione che gli è stata dedicata all’interno dell’Istituto di Rieti, rimanesse schiacciato da una giustizia, carceraria e non, che ha tempi e procedure non misurate sulla persona.

Al di là però del caso umano e giudiziario di Stefano Bonomi, rimane l’aspetto di una schermatura mediatica che circonda i casi di sciopero della fame di detenuti e, in questo caso reatino, perfino dopo il suo esito fatale.

Infatti, a fronte del tragico evento della notte tra il 5 ed il 6 gennaio, già stupiva che l’evento fosse stato reso noto solo il 10 gennaio e solo a Viterbo (non a Rieti dove lo sciopero era avvenuto). Ma poi ancor più che esso ha stentato nel lasciar tracce sulla stampa nazionale: accenni ne abbiamo trovati solo su L’Unità e Corriere.it il 16 Gennaio, su La Stampa il 19 e poi su Avvenire il 21. Anche una dichiarazione del 13 gennaio della consigliera regionale Mattia non è riuscita ad andare oltre la cronaca di Viterbo.

Usiamo la parola “tracce” perché, prima di Luigi Mastrodonato, senza nessun approfondimento o domanda: al massimo “Un 65enne è morto dopo un lungo sciopero della fame nel carcere di Rieti. Era in attesa di giudizio ed è spirato nel reparto di medicina protetta dell’ospedale «Belcolle» di Viterbo dove era stato ricoverato coattivamente”. In un’occasione anche semplicemente enumerato come caso di suicidio. E nessun politico di livello nazionale (con la solita eccezione di Rita Bernardini) o commentatore che abbia ripreso il fatto.

Questo contrasta visibilmente non solo con i casi di suicidio (che vengono comunicati tempestivamente e spesso ricevono attenzione in cronaca nazionale e con approfondimenti) ma anche con la rilevanza nazionale assunta dai casi di infausto sciopero della fame accaduti nel 2023: basta cercare in rete “Augusta sciopero della fame” e “Torino carcere sciopero della fame”. A Torino la notizia si ebbe a livello nazionale nell’immediatezza, ad Augusta (con due decessi) pochi giorni dopo; e a seguito, dichiarazioni del Garante Nazionale, visita del Ministro Nordio.

Per le morti di Augusta, il Garante Nazionale richiamò “la necessità di quella trasparenza comunicativa che, oltre a essere doverosa per la collettività, può anche aiutare a trovare soluzioni in situazioni difficili perché non si giunga a tali inaccettabili esiti”.

Anche associare i casi di sciopero della fame, e particolarmente questo, al degrado strutturale degli istituti (che non c’è a Rieti) o al sovraffollamento (quello c’è ed è notevole, ma in regime di celle aperte) non ci sembra calzante: per quanto abbiamo letto, tutti questi scioperi della fame erano legati a “diritti” invocati dai detenuti; diritti che competevano non alla dura, inumana vita in carcere, ma alla Giustizia “esterna”: la detenuta di Torino chiedeva di vedere il figlio di 3 anni; ad Augusta una richiesta era di essere estradato per scontare la condanna in patria. Di Bonomi La Repubblica il 30, in una breve, ci dice che “protestava perché non aveva avuto accesso ai benefici di legge”.

Il Garante Nazionale, nell’occasione di Augusta, evidenziò anche il differente eco mediatico tra lo sciopero di Alfredo Cospito e quelle vicende, che avevano riguardo detenuti “ignoti”. Quando Enzo Tortora tornò a Portobello, dopo il famoso “dove eravamo rimasti?” disse “io sono qui, e lo sono anche per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi”; ma sopravvisse appena un anno, a ciò che aveva subito.

E così gli scioperi della fame, lotta non violenta che per legge sarà “rivolta” se la fanno in tre, in Italia si svolgono in silenzio, lontano dai riflettori; e per Stefano Bonomi anche dopo.

Un detenuto a Rieti è morto di sciopero della fame

Dopo la tragedia di Matteo, ancora qualcuno che muore di carcere: il 65enne Stefano Bonomi, detenuto a Rieti dove aveva condotto un lungo sciopero della fame, e che per la sua condizione era stato ricoverato il 3 Gennaio all’ospedale di Viterbo, il 6 mattina non ce l’ha fatta.

Non sappiamo se il ricovero sia stato coatto, come riportano le cronache viterbesi, o se si fosse convinto a farsi aiutare. Non sappiamo neppure i motivi per cui avesse intrapreso questa forma di lotta; le stesse cronache ci dicono che fosse in attesa di giudizio.

Se il suicidio di Matteo, seppur annunciato, è stato considerato “inatteso” anche dal Garante Regionale marchigiano, si potrà dire altrettanto per Stefano?

Di Matteo si sa tutto, di Stefano si saprà qualcosa? Cosa l’ha spinto, prima ancora di essere condannato, ad urlare così la sua richiesta? Era una richiesta legittima? Pare che sostenesse la protesta da molto tempo, anche interrompendola più volte; questo mostrerebbe sia la determinazione, sia la volontà di non portarla all’estrema conseguenza.

Non è la prima volta che questo accade in Italia. Ci furono episodi lo scorso maggio, in Sicilia. Allora, dopo la diffusione della notizia, il Garante nazionale delle persone detenute e private della libertà, Mauro Palma, richiamò “l’attenzione pubblica sulla necessità della completa informazione che deve fluire dagli Istituti penitenziari all’Amministrazione regionale e centrale affinché le situazioni problematiche possano essere affrontate con l’assoluta attenzione che richiedono”.

Se di Stefano Bonomi i Garanti Nazionali o Regionale dei Detenuti non conoscevano il caso (e crediamo di no, se dopo cinque giorni non ne ha data notizia) non credo sapremo mai di più, a meno che la famiglia non vorrà renderlo pubblico. Visto il tempo trascorso, immaginiamo che non ci aiuterà a capire neppure qualche sindacato della Penitenziaria, solerte nel riportare informazioni su violenze da parte di detenuti; eppure con il nuovo “Pacchetto Sicurezza” la “resistenza anche passiva agli ordini impartiti”, come quello di alimentarsi, è da considerare “reato di rivolta”. Sbagliamo a pensare che forse una utilità almeno in questa circostanza avrebbe potuto avere un Garante Comunale dei Detenuti (come spesso ripetiamo: figura a titolo gratuito istituita 10 anni fa e mai attuata)?

Il Carcere di Rieti merita una diversa conoscenza

Informazione monopolizzata da un sindacato – La necessità di nominare il Garante Comunale

La morte per sciopero della fame e della sete della madre detenuta a Torino, senza che nessuno all’esterno sapesse di lei, ci tocca tutti come cittadini dello Stato che la aveva in custodia, ma richiede una riflessione anche a Rieti su cosa e come esce dagli istituti alla conoscenza della società libera.

Riflettiamo su questo perché nelle ultime settimane sono stati resi noti da uno dei sindacati di Polizia Penitenziaria (il SAPPE) episodi di aggressione a Rieti ai danni di agenti.

Come Sabina Radicale esprimiamo naturalmente la nostra solidarietà e vicinanza alla polizia penitenziaria di Rieti, per le condizioni di lavoro cui sono sottoposti lavoratori e lavoratrici, cronicamente sotto organico, e anche, nei casi in questione, per i rischi che derivano loro da una cattiva gestione in questo Paese della salute mentale, che spesso trova nel carcere la sua “soluzione”.

Diciamo questo perché i primi due fatti si riferiscono l’uno ad un episodio occorso in Ospedale da parte di un internato in REMS – cioè persona giudicata NON colpevole a causa della sua malattia mentale – e l’altro ad un episodio occorso in carcere durante l’accompagnamento in infermeria di un detenuto proveniente dal Reparto di Diagnosi e Cura di Reggio Emilia, dove peraltro esiste nel locale Penitenziario una sezione “Articolazione per la Tutela della Salute Mentale”, sezione assente a Rieti. E anche il terzo episodio viene riferito come legato ad una richiesta di psicofarmaci, il cui uso riguarda ufficialmente (vedi rapporto di Antigone dell’aprile scorso) quasi la metà dei detenuti.

Il problema che poniamo è però che, pur nella gravità degli episodi, l’immagine trasmessa dal sindacato SAPPE finisce per dare una visione parziale della vita all’interno dell’istituto e del rapporto tra detenuti e detenenti e quindi diversa da quella, di grande collaborazione e di rapporti sereni, che abbiamo sempre riscontrato nelle nostre visite. A questo scopo ricordiamo l’iniziativa www.devivedere.it di Radicali Italiani che si offre di portare cittadini in visita negli istituti.

Un sindacato non ha certo come mandato sociale il dare notizie, ma piuttosto rivendicare qualcosa per i suoi iscritti. E infatti quello che avviene è che si prenda spunto da queste comunicazioni per dar forza a proprie storiche richieste, come l’abbandono della vigilanza dinamica (cioè il fatto che i detenuti possano liberamente spostarsi all’interno della sezione e non rimangono chiusi in cella) e addirittura l’uso del Taser, che è concesso finora a Forze dell’Ordine “esterne”. Il Taser viene addirittura reclamato parlando di un pugno ricevuto da un agente, quando questa “pistola elettrica” ha una distanza minima operativa di 1,5 metri ed ottimale da 2 a 5 metri (secondo il Vademecum della Polizia di Stato, il quale raccomanda “la stessa attenzione con cui si tratta un’arma da fuoco”).

Il problema è però non tanto quello che questo sindacato propugna ma il suo monopolio dell’immagine che all’esterno si ha dell’Istituto di Vazia. Ad esempio nel 2022 ci sono state 7 aggressioni ai danni di agenti, ma anche 5 tentativi di suicidio (e 42 atti di autolesionismo) di cui nulla si è saputo fuori.

E’ importante quindi che del carcere si abbia una informazione più obiettiva; se ne escono solo episodi critici, e descritti con quel fine, la città di Rieti continuerà a guardare a quel mondo attraverso quella particolare lente. Non per niente, quando anni fa proponemmo a consiglieri comunali una visita, ci fu chi, avendo letto un comunicato sindacale di allora, rispose che preferiva aspettare che la situazione si calmasse.

Anche per questo, torniamo a chiedere all’Amministrazione Comunale (ma anche al Consiglio Comunale tutto) di concretizzare finalmente la nomina di un Garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà, figura a titolo gratuito istituita ormai 10 anni fa e mai nominata; figura che possa anche riequilibrare l’informazione ed agevolare un rapporto, finora assente, tra l’istituto e la città

La manutenzione della città potrebbe trovare un valido aiuto nella popolazione detenuta

E’ di qualche giorno fa un intervento pubblico di don Paolo Blasetti, il cappellano del carcere di Rieti, dal quale sono emerse le numerose criticità che pongono la struttura detentiva e, con essa, tutta la sua popolazione, tra detenuti e guardie carcerarie, in una sorta di universo completamente separato dal resto della città.

Questo viene a vanificare una delle finalità della detenzione, la quale non è tanto quella di infliggere una pena, ma di tentare quell’opera di recupero della persona di cui all’articolo 27 della Costituzione italiana: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Don Paolo ha prodotto numerose riflessioni sul perché ciò, di fatto, non avvenga, qui a Rieti.

Diversamente da quanto accade in altri penitenziari, non sono al momento attive forme di “contatto” tra la casa circondariale e il resto della città. Che potrebbero invece sostanziarsi in attività non soltanto culturali, ma di socializzazione, con benefici anche per la collettività.

Vediamo per esempio il caso dell’ordinaria manutenzione della città. Le forti precipitazioni di qualche ora fa hanno mostrato quanto il tessuto urbano sia fragile, anche perché mancano le necessarie opere di drenaggio dell’acqua piovana. Si potrebbero allora immaginare, per i detenuti che ne abbiano i requisiti, dei percorsi di coinvolgimento nella cura della città?

Ricordiamo che dieci anni fa, il Comune stesso annunciava l’avvio di un progetto che affidava a detenuti  – naturalmente retribuiti – la pulizia delle caditoie e delle strade delle frazioni di Lugnano, Vazia, Cupaello, Casette, San Giovanni Reatino, Sant’Elia, Piani Poggio Fidoni, Poggio Fidoni Alto, Morini, Poggio Perugino e Maglianello. E in passato un’analoga iniziativa fu già messa positivamente in atto, nella Amatrice post sisma, a iniziativa della Direzione dell’Istituto penitenziario. 

Ma anche nell’ambito del puro volontariato si può fare molto.

Nello scorso autunno è venuta a Rieti l’associazione Seconda Chance, no profit fondata a Roma nel luglio 2022 dalla giornalista tv Flavia Filippi, che promuove e facilita tra le imprese l’applicazione della legge Smuraglia (193/2000), una norma che offre ingenti agevolazioni a chi assuma, anche part time, detenuti. L’associazione fu, a quanto sappiamo dall’associazione, ben accolta da amministrazione e imprenditori (anche partecipate?), benché nulla di questa iniziativa sia stato comunicato dal Comune.

Oltre al reinserimento lavorativo, la stessa associazione ha però intrapreso iniziative di risocializzazione, utili anche all’approccio del cittadino “libero” verso il detenuto, in vista del reinserimento lavorativo: lo scorso 7 maggio, grazie a Seconda Chance, una cinquantina di detenuti dalle carceri di Bologna, Frosinone, Laureana di Borrello, Locri e Palmi, hanno bonificato aree degradate assieme ai volontari di Plastic Free.

Nel frattempo, avverte don Paolo Blasetti, i detenuti rischiano di rimanere per lungo tempo in uno stato di completa deresponsabilizzazione che, di fatto, sarà ulteriore ostacolo al loro futuro reinserimento nella comunità, aumentando così di gran lunga il rischio di recidiva.

Da Santa Maria Capua Vetere a Rieti: quanto avvenuto in carcere è di interesse pubblico?

A Santa Maria Capua Vetere si sta svolgendo il processo per il pestaggio che avvenne durante una spedizione punitiva seguita alle rivolte-covid del marzo 2020. Quelle rivolte ricordiamo che videro anche diversi morti, in particolare a Modena (nove) ed a Rieti, dove morirono tre detenuti: Marco Boattini, Ante Culic e Carlos Samir Perez Alvarez.

La novità di questi giorni è che è in atto laggiù un tentativo di impedire la messa online della registrazione del processo da parte di Radio Radicale.[1]
Ricordiamo che il processo è stato possibile grazie a delle telecamere lasciate inavvertitamente accese; Il processo, e l’accertamento dei fatti sono stati giudicati dallo Stato Italiano di pubblico interesse, tanto che quando la verità venne a galla, all’istituto si recarono in visita la Ministra Cartabia ed il Presidente Draghi e lo Stato si è costituito parte civile.

Di altrettanto pubblico interesse dovrebbe essere togliere ogni ombra su quanto accaduto negli stessi giorni a Rieti. Benché la Commissione ispettiva costituita dal DAP abbia stabilito che la rivolta è stata gestita in modo corretto ed efficace, è noto da tempo che anche in Procura a Rieti è aperta un’indagine; ne diedero conto diverse testate e ce lo ricorda per ultima un’inchiesta pubblicata su Il Domani il 15 Gennaio di quest’anno, oltre due mesi fa.[2]

La stessa inchiesta riporta virgolettati di ex detenuti (ovviamente da verificare da parte degli inquirenti): «Entravano in cinque-sei guardie in cella per fare la perquisizione, ci facevano spogliare e uscire. Dovevamo percorrere un corridoio di una cinquantina di metri, un agente ci teneva la testa bassa e le braccia bloccate e circa 20 guardie a destra e 20 a sinistra ci davano pugni, schiaffi, manganellate e ci insultavano», racconta uno di loro. «Ci mettevano tutti in una stanza e finite le perquisizioni dovevamo rifare il percorso e riprendere le botte». Scene che, se veritiere, ricordano quanto visto nei filmati di Santa Maria Capua Vetere. Secondo un altro ex detenuto gli agenti erano una cinquantina. «Non erano quelli di Rieti, loro erano abbastanza gentili. Era una squadretta che veniva da fuori. Hanno voluto dare una punizione per mostrare chi comandava, soprattutto contro quelli che pensavano avessero avuto un ruolo nella rivolta»

Il giornalista de Il Domani (Luigi Mastrodonato) riporta di non aver avuto commenti né dall’Istituto né dalla Procura. Non sono tuttavia questi silenzi a stupirci quanto quello della città: possibile che nessuno che si occupi di comunicazione in città abbia notato un lungo servizio su Rieti, pubblicato su un giornale a tiratura nazionale?

In un libro sui fatti di Modena, l’autrice Sara Manzoli scrive che «la cortina fumogena calata sui fatti di Rieti è ancora più intensa e impenetrabile di quella scesa su Modena e altre carceri».

Quello che Sabina Radicale torna a chiedere, oltre all’accertamento dei fatti, è che Rieti non consideri il proprio istituto come qualcosa a sé estraneo. E pensiamo in particolare alle sue Amministrazioni Comunali, ricordando che il 10 Maggio saranno dieci anni dalla istituzione della figura del Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale[3], mai nominato benché – recita il suo Regolamento – “non dà diritto ad alcun corrispettivo o emolumento”.


[1] https://www.fanpage.it/napoli/violenze-in-carcere-a-santa-maria-capua-vetere-stop-a-radio-radicale-non-potra-registrare-le-udienze/

[2] https://www.editorialedomani.it/fatti/quelle-morti-nel-carcere-di-rieti-rimaste-nel-silenzio-ecco-cosa-e-successo-f2w7d3ji

[3] https://www.comune.rieti.it/article/13/05/garante-dei-diritti-delle-persone-private-della-libert%C3%A0-personale

Caso “PD = MAFIA”: vedere e garantire non è fiancheggiare

Sabina Radicale esprime solidarietà al Partito Democratico di Fara in Sabina, dove sono state segnalate diverse scritte PD = MAFIA.  La campagna di calunnia e disinformazione, organica alla strategia della tensione e di restrizione dei diritti, messa in atto dal governo Meloni, ha dunque trovato il suo ricasco anche localmente.

Ricordiamo che le visite nelle carceri rientrano nel “mandato” di Parlamentari e Consiglieri Regionali, e cioè esse non sono un loro diritto ma uno dei loro compiti. Questo mandato è volto a verificare le condizioni di detenzione ed espressamente non consente di prendere in considerazione la situazione processuale o criminale dei detenuti.

Se affianchiamo questa campagna di calunnia alle proposte di modifica costituzionale, anche a prima firma Giorgia Meloni, contrarie alla funzione rieducativa della pena, è evidente il disegno: una società in cui si progetta di far uscire dal carcere (qualcuno dovrà pure prima o poi uscire) dei delinquenti e non dei rieducati, abbruttiti ed incattiviti da condizioni di detenzione su cui nessuno ha vigilato. Un disegno di società volutamente insicura, coerente con il “tutti armati” che è nelle loro corde (si veda la recente uscita di Fazzolari sul tiro a segno nelle scuole).

Nei confronti del PD non ci fermiamo però alla solidarietà: ci auguriamo che questo partito, che trent’anni fa – in un periodo emergenziale – era contrario a quella norma pur provvisoria, e con motivazioni oggi ancor più valide, non si faccia imbrigliare in questo disegno ed affermi, come NON sta facendo, che l’istituto del 41bis, così come attuato, è una forma di tortura – come ribadito da numerose istituzioni internazionali ed anche controproducente, se mafiosi non furono estradati dagli Stati Uniti a motivo della esistenza di questo regime inutilmente vessatorio.

Chiediamo dunque, ad esponenti e militanti del PD, ed offriamo a chi immagini nella destra un diverso progetto che quello esposto, di cogliere l’occasione della iniziativa “Devi vedere” lanciata da Radicali Roma e che presto verrà allargata da Radicali Italiani all’intero territorio nazionale.

E’ una iniziativa che permette a tutti i cittadini di poter effettuare quelle visite ai luoghi di detenzione, ovviamente – per noi comuni cittadini – previa autorizzazione dell’Amministrazione Penitenziaria. Anche Rieti mesi fa fu coinvolta, ed in diversi dalla destra a posteriori ci segnalarono il loro rammarico per non averne saputo. Ora l’iniziativa è di nuovo disponibile: https://partecipa.radicaliroma.it/devi_vedere

A Rieti un detenuto su tre positivo al covid

Secondo i dati della Direzione regionale salute e integrazione sociosanitaria – Area rete integrata del territorio della Regione Lazio comunicati agli uffici del Garante dei detenuti -, nel carcere di Rieti i positivi al Covid-19 risultano questa settimana oltre 101: un detenuto ogni tre.
Dai primi 18 casi segnalati il 14 febbraio, e stabilizzatosi il contagio per tre settimane intorno ai 50 casi, oggi viene riportato il raddoppio degli stessi.

Sabina Radicale ringrazia l’opera del Garante Regionale che fornisce alla città elementi per vedere qualcosa oltre quelle mura; si rammarica però della mancata nomina, da parte delle due ultime amministrazioni, del Garante Comunale, figura a titolo gratuito istituita già nove anni fa.

Anche i detenuti di Rieti firmano per il Referendum Cannabis

e riemerge necessità della nomina del Garante Comunale

Sono questi i giorni del deposito in Cassazione delle firme per la richiesta di Referendum Cannabis Legale, raccolta che aveva immediatamente raggiunto, con il solo online, le 500mila sottoscrizioni necessarie.

Con la proroga per la consegna a fine ottobre, necessaria ai Comuni per riuscire a certificare le firme, si era nel frattempo aperta la possibilità di firme anche “con la penna biro”.

Sabina Radicale ha pensato di approfittarne per darne la possibilità anche ai detenuti di Rieti, nella Casa Circondariale dove, secondo il rapporto Antigone di fine anno, un detenuto su quattro è classificato come “tossicodipendente in trattamento”.

Quindi, dopo l’accesso di settembre per i referendum Giustizia Giusta ed Eutanasia Legale, ci siamo recati di nuovo al carcere di Rieti in una delegazione composta da Marco Giordani e Marco Arcangeli, a cui si è unita Morena Fabi presidente della Camera Penale di Rieti, in veste di autenticatrice.

La proposta di referendum è stata accolta molto positivamente dai detenuti. Ricordiamo che secondo il “Libro Bianco” di Forum Droghe un detenuto su tre entra in carcere per violazione del solo art. 73 (Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope), escludendo quindi l’art. 74 che ne punisce l’associazione. Essi conoscono quindi molto bene il tema: non sono mancate considerazioni da parte di detenuti sulla necessità di legalizzare al fine di togliere i profitti alla mafia; qualcuno ha persino convintamente firmato pur dichiarando che “nonostante questo gli avrebbe tolto il lavoro” (che evidentemente avrebbe intenzione di non riprendere una volta tornato alla vita libera).

Benché la nostra non fosse una visita ispettiva, diversi detenuti ci hanno chiesto un riferimento per perorare proprie richieste (tutte in qualche modo collegate alla necessità di salvaguardia dei propri affetti familiari, base per una nuova vita a fine pena).

Dall’amministrazione ci è giunta invece la considerazione che alla frequenza delle nostre visite non corrisponda un pari impegno da parte della città, intesa come amministratori ma anche come “società civile”. Non solo mancano opportunità di lavoro, ma ci sarebbe bisogno di più occasioni di cultura, di attività, di interscambio e conoscenza; ma anche di sensibilizzazione dei cittadini liberi da parte delle amministrazioni. A mo’ di esempio, ricordiamo come In una visita del 2018, segnalando la povertà degli attrezzi della palestra, invitavamo il Consigliere delegato allo sport ad attivarsi verso le palestre cittadine per una donazione di attrezzature nella abituale rotazione delle stesse; non ci fu riscontro, se non ironie sui social.

Crediamo che quanto, pur a margine della raccolta, abbiamo raccolto dai principali attori di quel mondo segnali ancora una volta la mancanza di un Garante per i Diritti delle Persone Private della Libertà Personale, che sia più prossimo di quello regionale e che si interfacci con la città; cioè quanto il Comune di Rieti prevede con quella figura, istituita otto anni fa ma mai nominata dalle due amministrazioni che si sono finora succedute. 

Non ci illudiamo che questo sia un tema delle prossime elezioni ma, per quanto riguarda Sabina Radicale, sarà una condizione.

Segnalata una zecca nel carcere di Rieti

Sabina Radicale segnala che Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, riporta sul proprio profilo FB di aver ricevuto per posta da un detenuto del carcere di Rieti una zecca, rinvenuta nell’Istituto. Dalla foto sembra che si tratti pare di una zecca molle, cioè non quella che vive all’aperto ma quella cosiddetta “dei piccioni” perché spesso associata e veicolata da questi animali e che trova il proprio habitat in sottotetti, torri, edifici abbandonati.

Il carcere di Rieti ha carte in regola per essere uno dei migliori dal punto di vista igienico, con ogni cella dotata di doccia ed acqua calda e personale e dirigenza attenti. Purtuttavia ci viene da pensare che esistano all’interno dell’istituto delle aree in cui il parassita ha modo di stanziare, in attesa di un ospite (necessariamente umano, nella circostanza) di cui nutrirsi.

Ci auguriamo che l’accaduto, di certo segnalato anche alla ASL, sia seguito al più presto da una opportuna disinfestazione.

Sabina Radicale ricorda come il Comune di Rieti debba ancora procedere alla nomina del proprio “Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale”, figura istituita ben otto anni fa; nomina ancor più pressante oggi che è attiva in città anche una REMS, Residenza per autori di reato affetti da disturbi mentali.